Attualità

Attualità

Libertà

Ha suscitato discussioni la sentenza di un tribunale che ha dichiarato illegittimi i dpcm che impongono la permanenza domiciliare ledendo i diritti costituzionali.

Ebbene, io credo che, se certamente sono legittime le esigenze sanitarie e non dobbiamo vanificare gli sforzi per contenere la pandemia, tuttavia non dobbiamo nemmeno dimenticare che viviamo in una situazione di sospensione dei diritti e delle libertà sancite dalla costituzione.

Una cosa è collaborare da cittadini responsabili a contenere un danno, altra cosa vedersi rinchiusi e limitati sine die al di là della legittimità costituzionale.

Sempre riflettendo su questi problemi però ho anche pensato al fatto che, non appena si riapre dopo il cosiddetto “lockdown” andiamo a metterci in coda con l’auto, ad affollare i centri commerciali e i bar all’ora dell’aperitivo. Gli appassionati al teatro o ai concerti, altri allo stadio…

Insomma tutto giusto e legittimo, ma mi ha sfiorato come un’ombra inquietante anche il dubbio che in fondo viviamo da sempre in regime di libertà condizionata.

Non riusciamo proprio a immaginare niente di più o di diverso per le nostre vite?

Non so perché, o forse proprio perché mi pesano tanto le attuali limitazioni sento fortemente il bisogno di dare un nuovo senso al concetto di libertà e alle sue declinazioni pratiche.

Non so cosa né come, ma sento che dovremmo fare lo sforzo di andare oltre.

Sento un forte bisogno di vita, di immaginazione e di creatività.

 

Terrapiattismo linguistico

Per quest’anno ho deciso di regalarmi la rilettura dell’opera di Dante Alighieri.

Ho voluto incominciare dalla Commedia e da una lettura ad alta voce, la sola in grado di far risplendere l’endecasillabo dantesco in tutto il suo valore formativo.

Quali meraviglie nascono dalla schietta musicalità e dalla grande varietà di registri espressivi che portano in mondi diversi nel giro di una sola terzina!

Alla luce di tanta libertà le polemicuzze stitiche sulle declinazioni della nostra lingua dettate dalla paura di perdere chissà quale purezza che si leggono anche in questi giorni mi fanno pensare che viviamo in una epoca di “terrapiattismo linguistico”, arretrata più che nel dugento (quasi millettré)

 

“…Tu imagini ancora

Di esser là dal centro, ov’io mi presi

Al pel del vermo reo che’l mondo fora.

Di là fosti cotanto quant’io scesi;

Quand’io mi volsi, tu passasti ‘l punto

Al qual si traggon d’ogne parte i pesi.”

(Inf. XXXIV, 106-111)

 

La fine del lavoro

Da diversi anni ormai il peso dell’economia finanziaria soverchia il peso dell’economia reale. I soldi veri, i guadagni più cospicui arrivano dalla politica e dalla finanza, di conseguenza il lavoro vero, quello utile, interessa davvero poco.

Lo si evince anche dagli appelli di Confindustria alla “flessibilità”. Lo stato non deve interferire nella gestione dell’economia, deve lasciare la libertà di sfruttare e licenziare la manodopera che è solo una seccatura temporanea, perché i soldi veri arrivano dalla finanza, o dallo stato stesso, che non deve interferire, ma è richiamato subito all’ordine quando si tratta di tappare i buchi della illuminata gestione manageriale.

Quello che rimane è un problema di ordine pubblico: continuare a far credere alle persone che il diritto a sopravvivere e ad avere una casa debba essere legato al passare un cospicuo numero di ore della propria giornata in un “posto di lavoro”, sia pure a far niente o a svolgere mansioni totalmente inutili, serve a tenerle buone, a evitare che pensino (tout-court) o che esplodano in atti di violenza per la noia e il senso di inutilità.

Pensiamo alle squadre di persone messe a svolgere meta-lavori (controllo qualità, customer satisfaction, passacarte di varia natura) – che poi nelle strutture sanitarie pubbliche, per risparmiare risorse, spesso sono medici o infermieri distratti da quello che sarebbe il loro vero e utile lavoro – e che normalmente sono anche meglio pagate di chi si sporca le mani nel lavoro vero e pesante.

Nelle aziende in generale ormai chi fa cose, la manodopera, costituisce un peso, i lavoratori sono i poveracci ai quali si addossano le responsabilità delle difficoltà, il ramo secco dal quale si incomincia a tagliare non appena è possibile.

Anche nella scuola, chi insegna e sta a contatto con i ragazzi è screditato socialmente e messo sempre più in difficoltà da tagli di risorse, da incombenze burocratiche, mentre negli uffici ministeriali prosperano i cervelloni che quelle stesse incombenze se le inventano insieme con certe alzate d’ingegno come le “prove invalsi”, o tutte le altre scartoffie.

Per non parlare poi dei casi nei quali il lavoro non è solo inutile, ma anche di dubbia moralità. Nel mondo all’incontrario nel quale viviamo nello stesso ufficio dove squadre di broker e avvocati passano il loro tempo a studiare come non far pagare le tasse a persone straricche, gli addetti alle pulizie, le uniche persone che lì dentro svolgono un lavoro utile e onorevole, sono sottopagati e trattati come esseri inferiori.

Insomma, nel mondo occidentale l’epoca del lavoro, così come lo conoscevamo, è finita, e qualcuno dovrebbe avere il coraggio di dirlo.